La scuola serale dei Pink Floyd
E se lo studio esasperato, una rigida ed ambiziosa programmazione del proprio futuro, rubassero spazio all'uomo, alla sua formazione e al suo bagaglio esperienziale? Un professore americano di fronte agli studenti di un college, apre il proprio libro dei ricordi. Quella strana situazione che si creò al concerto dei Pink Floyd...quella notte...
*tratto da un articolo di Mark Edmundson
“Dunque, cosa farete dopo il diploma?”
Nella primavera del mio ultimo anno al college, feci questa domanda ai miei colleghi studenti della mia piccola-scuola-fuori-mano nel Vermont. Le risposte che mi diedero furono soddisfacenti: “non molto”, “mi guarderò intorno”, “girerò un pochino”, “la prenderò con calma“.
Era il 1974. Era quello che dovevano dire.
Ma i miei amici stavano mentendo spudoratamente. Il giorno dopo il diploma, era chiaro che molti di loro sarebbero andati a studiare legge, a seguire un corso sulle relazioni internazionali a New York, o a San Francisco.
Io invece la presi veramente con calma. Dopo il diploma, ho speso 5 anni guardandomi intorno e facendo nulla, o comunque andandoci il più vicino possibile. Sono stato un tassista, un ossessionato frequentatore di cinema, un vagabondo nelle montagne del Colorado, un insegnante in una grande scuola hippie in Vermont, il manager di una casa cinematografica (non c’era molto da fare), un inserviente su una nave e un usciere in una discoteca.
Il lavoro più straordinario di tutti, fu in uno staff di montaggio palchi da concerto per un’azienda di Jersey City. Abbiamo fatto show al Roosevelt Stadium, a grungy behemoth che poteva contenere 60.000 posti seduti nel prato. Ho scaricato amplificatori dal camion fino al palco; circa sei ore dopo li ho ricaricati nel camion. L’ho fatto per Grateful Dead e Alice Cooper e Allman Brothers, e Crosby, Stills & Nash la notte che Richard Nixon si dimise. Ma la notte più straordinaria del lavoro più straordinario è stata la notte dei Pink Floyd.
I Pink Floyd richiedevano una certa qualità del suono. Volevano i loro amplificatori montati in alto, non semplicemente sul palco, dove erano così alti e irraggiungibili che sembravano una barricata nella comune di Parigi. Inoltre richiedevano che i loro amplificatori fossero montati a tre altezze diverse tutto intorno allo stadio, ed io spesi tutta la mattina a trascinare grandi casse di legno e circuiteria varia su e giù per tutto lo stadio.
C’era un altro compito: un grande telo di seta bianca, tipo paracadute, che i Pink Floyd volevano montato sul palco stile baldacchino. Richiese sei ore mettere tutto in posizione. C’era stato detto che sarebbe stato il primo utilizzo di quell’enorme telo bianco ed i ragazzi dello staff dei Pink non erano molto sicuri su come fare. Avevano delle istruzioni ma queste si rivelarono di scarsa utilità. Infine il telo venne gonfiato con il gas e si alzo sopra il palco grazie al know-how americano. Know-how americano che prevedeva una serie spontanea di nodi tra le varie corde che sostenevano il telo.
I Pink Floyd vennero alle 10 quella sera e gli amplificatori che c’erano costati tanto sudore non funzionavano – la gente si era seduta sopra, li aveva presi a calci o aveva tagliato i cavi. Quindi i Pink Floyd fecero il loro rumore, ma le torri posteriori rimasero mute, la folla accese gli accendini e tutto andò come doveva andare. Alla fine spendemmo altre tre ore per smontare tutto e caricare nuovamente i camion. Ci rifiutammo di recuperare gli amplificatori sparsi in giro per lo stadio, e dopo qualche parola “tagliente”, i ragazzi dello staff dei Pink Floyd si arrampicarono e li tirarono giù. C’era, per la cronaca, quasi sempre tensione tra i tecnici che seguivano i gruppi in tour ed i tecnici che invece erano del posto. Una volta ad uno show dei Queen, cinque tecnici in tour si azzuffarono con una dozzina dei nostri; poi quelli della sicurezza, per lo più formata da Jersey bikers e cinture nere di karate, sentirono rumore e arrivarono in massa. I tecnici in tour tennero testa per un po’, poi pensarono bene di rubare una cassa di champagne da un camion, aprirono una bottiglia e la fecero passare – diventammo tutti ubriachi e contenti.
Ad ogni modo, il manager in tour dei Pink Floyd voleva che il grande telo gonfiato sopra al palco venisse riposto nella propria cassa di legno. C’era un problema. Quel telo era pieno di elio e nessuno sapeva dove fosse la valvola di scarico. Inoltre avevamo assicurato il telo al palco con una serie di nodi allucinanti e indistricabili. Eravamo tutti stanchi. Coloro che si erano intossicati con l’elio non c’erano più. Erano le 4 di mattina ed era ora di andare a casa.
Se ne era andata un’ora cercando di inventare strategie per far scendere quel dannato telo. Divenne un seminario. Poi arrivò Jimbo, il nostro capo, che sembrava un vichingo e che difendeva la propria squadra ogni volta, fino al punto di arrivare a gridare in faccia a Stevie Nicks, il quale si era arrabbiato con me perché avevo fatto cadere una custodia di una chitarra. Di fronte alla crisi del telo-dei-pink-floyd, Jimbo fece quello che era solito fare in circostanze difficili, vale a dire che fece qualcosa.
Camminò furtivamente in un angolo del palco ed estrasse dalla tasca un piccolo coltello e con esso iniziò a tagliare le corde che tenevano il celestiale telo legato a terra. Tre o quattro di noi fecero lo stesso. “Hey, che cosa state facendo?” urlò il capo dei tecnici in tour. “Ti spaccherò il …”, solo allora realizzò che Jimbo aveva un coltello in mano e che molti di noi stavano facendo lo stesso. Nello spazio di un minuto tagliammo tutte le corde.
Poi venne come un gran rumore di sfilacciamento come se l’ultima piccola corda si fosse rotta.
Poi il telo si alzò in aria ed iniziò a fluttuare via, come una grande nuvola, bianca e soffice. Il sole, in quel momento, spuntava sopra l’orizzonte e il telo si allontanò pervaso da sfumature rosse. Jimbo iniziò a ridere con la sua grassa risata. Iniziammo a ridere tutti. Anche i ragazzi dei Pink Floyd lo fecero. Eravamo ragazzini all’ultimo giorno di scuola. Stavamo su un palco vuoto guardando un tetto di seta andarsene lontano, soffiato dal vento sopra l’atlantico. Qualcuno di noi fluttuò.
“Dunque, che farete dopo il diploma?”.
Trentacinque anni dopo, come insegnante di un college, pongo ai miei studenti la vecchia domanda. Non sono inclini a dissimulare ora. La cultura è dalla loro parte quando mi parlano di facoltà di legge, master in giornalismo e business; o quando parlano di grandi ricerche in Cina o di un lavoro ben pagato come insegnante di inglese in Giappone.
Sono certamente impressionato, ma anche preoccupato per loro. Non staranno decidendo troppo presto? Non dovrebbero traccheggiare un pochino, imparare a prendersela con calma?
All’improvviso mi appare il telo di seta bianca mentre fluttua verso il nulla. Lo vedo come se fosse ancora lì. Vorrei indicarlo col dito e mi piacerebbe che lo vedessero anche i miei studenti.
"Bellissimo articolo."
Veronica - L’importanza dell’onestà intellettuale -"giusto"
Virginio Caparvi - L’importanza dell’onestà intellettuale -"Essere ligi quando le leggi sono a nostro favore è facile. Esserlo quando sono contro di noi è un'altra storia. In nessuno dei due casi, comunque, possiamo giudicare l'onestà intellettuale di una persona. Bisognerebbe poter indagare le motivazioni interiori alla base dei comportamenti di una persona. Le leggi cambiano a seconda del periodo storico: chi è stato onesto ieri potrebbe apparire disonesto oggi. Val anche il contrario, naturalmente. Chi possiede una coscienza individuale molto forte non si sente in colpa quando infrange una legge deleteria (pensiamo a Gandhi), mentre potrebbe sentirsi cattivo essendo obbligato a rispettare una norma che danneggia anche solo in parte qualcun altro o la società nel suo insieme... Saluti"
Luca - L’importanza dell’onestà intellettuale -